Giuseppe di Nazareth
Giuseppe, il padre putativo di Gesù, ci viene normalmente presentato come un personaggio tutto sommato poco interessante: un vecchio abbastanza insignificante il cui unico compito è quello di fare la guardia a Maria ed al bambino.
Probabilmente questa figura agiografica e tradizionale non è vera: il personaggio Giuseppe, prototipo dell’artigiano umile e paziente, ha cancellato l’uomo Giuseppe, figura –se sappiamo leggere bene il Vangelo – di notevole tempra. Intanto era un principe. Era un discendente diretto del re Davide e quindi membro della più vecchia e prestigiosa famiglia reale di Israele. Certo ormai l’importanza politica del Suo nome era tramontata. Non però l’importanza morale: tutti sapevano che dalla casa di Davide doveva nascere il Messia. Insomma non era, per famiglia, un uomo qualsiasi.
Per quanto riguarda la Sua attività, il Vangelo dice che era un “Tekton”, un falegname cioè, ed un muratore.
I sacerdoti, nelle prediche, prendono spesso pretesto da questo per un usuale commento pauperistico: era un povero falegname.
Se pensiamo all’importanza che il manufatto ha in una società preindustriale, ci accorgiamo che la posizione sociale di Giuseppe era per lungi dall’essere disastrosa. Certo la distanza tra lui ed il potere politico era molta. Ma anche oggi è molta la distanza tra il Presidente del Consiglio ed un bravo ingegnere.
Forse allora la distanza era, tutto sommato, minore. I tecnici erano rari. Le conoscenze venivano segretamente e gelosamente tramandate di padre in figlio e la società riconosceva ed apprezzava l’ insostituibile ruolo del tecnico.
Nelle società africane e germaniche il fabbro era, ad esempio, considerato addirittura come un mago, dotato di particolari e segreti poteri.
Quindi Giuseppe non era povero, almeno secondo il metro di allora. Stimato per la Sua famiglia, apprezzato per il Suo lavoro, doveva essere l’equivalente di un buon professionista dei nostri giorni, che discenda per giunta da una nobile, per quanto decaduta, famiglia.
Vediamo di immaginare questo vigoroso giovane sui trent’anni, fiero della Sua discendenza e della Sua capacità tecnica. Non sappiamo nulla della Sua fanciullezza e della Sua adolescenza. Come tutti, avrà conosciuto l’amicizia e avrà trattato i problemi politici del momento.
Era allora ferocemente dibattuto il problema dell’integrazione. Dovevano, gli Ebrei, integrarsi pienamente nella civiltà greco-romana o dovevano mantenere le vesti ed i costumi dei padri? Non dimentichiamo che in Palestina vi erano allora ben dieci città – la cosiddetta Decapoli – formate esclusivamente da coloni greci.
E l’amore? Probabilmente – se l’aveva conosciuto – lo aveva conosciuto solo sotto la forma di amori mercenari, che gli Ebrei non giudicavano particolarmente peccaminosi. La tradizione riporta però che Giuseppe avesse fatto voto di castità. Cosa non improbabile, data la vicinanza e l’influenza della setta degli Esseni.
Quello che è certo, è che era in Lui vivo l’amore ed il rispetto per il Dio dei Suoi padri. Che il Lui coesistevano in maniera particolarmente spiccata i fattori che rendono una persona atta a compiere imprese di rilievo: un buon patrimonio genetico, la crescita in un ambiente ricco di interessi e non sfibrato dal lusso ed, infine, spiccate doti personali di volontà ed intelligenza, unite ad un profondo senso della giustizia.
Quando arriva all’età consacrata dalla tradizione – trenta anni -, Giuseppe si fidanza con una strana ragazza, Sua lontana parente in quanto anche Lei di discendenza davidica.
Era più giovane di Lui di una quindicina di anni, come si usava allora, e godeva di una strana fama: sincera e profonda in maniera sconcertante, era capace di suscitare sconcerto e timore per certe Sue strane intuizioni e per la Sua abitudine di dire sempre il vero. Più tardi si sarebbe detto che era stata concepita senza il Peccato Originale: non poteva quindi mentire.
Possiamo immaginare che il fidanzamento, che allora era un legame stretto ed importante come il matrimonio – a parte l’esclusione di ogni rapporto sessuale – si sia svolto in maniera tradizionale: i contatti tra i genitori degli sposi, la cerimonia ufficiale e poi visite periodiche di Giuseppe alla casa di Maria per incontrare, sempre in compagnia di genitori e parenti, la Sua promessa sposa. Il suo spirito si andava ormai abituando all’idea di una vita da buon borghese. Trascorsa l’epoca degli ardori giovanili, desiderava la sua ragazza, sognando, per il proprio futuro, una vita di carezze, di affetto e di figli.
Questa sua legittima e normale ambizione veniva sconvolta nella maniera più drammatica ed umiliante per un uomo: la Sua fidanzata aspettava un figlio.
E’ difficile per noi oggi, in una epoca di liberi amori, capire a fondo cosa può essere stato il dramma di Giuseppe. Intanto una vergine che si fosse data, consenziente, ad un uomo, era punita con la morte: la considerazione che si aveva nel Medio- Oriente, per la castità era enorme.
A ciò si aggiungeva un altro più grave delitto: l’adulterio. Infatti il fidanzamento era, dal punto di vista contrattuale, definitivo come il matrimonio: gravissimo ed altamente offensivo era considerato il romperlo. La faide, che ne seguivano, potevano annientare intere famiglie.
Ed ecco, Giuseppe vedeva tutti i Suoi sogni infranti. Lui stesso irrimediabilmente colpito nel Suo orgoglio di uomo, nel Suo amore, nella Sua virilità: la sua donna, la sua fidanzata, Colei che aveva sempre rispettato, si era concessa ad un uomo. Ed a chi, poi? Chi poteva essere il colpevole, in un ambiente piccolo come quello di Nazareth, dove tutti si conoscevano? Possibile che si fosse data ad uno straniero di passaggio?
Voleva ucciderla, voleva annientarla. Lo vedeva come l’unico mezzo per placare la rabbia e la gelosia che in ogni momento lo tormentavano, che gli impedivano di dormire, di lavorare, di parlare.
Per non parlare della vergogna, del proprio onore perso. Lui, nobile, bello, fiero del suo lavoro e dei suoi antenati. Per fortuna non si sapeva ancora niente. Però presto la voce avrebbe cominciato a circolare, gli amici a diradarsi, i conoscenti ad assumere quell’atteggiamento contrito e mellifluo, che altre volte aveva con disprezzo notato.
Nonostante la sua umana sete di vendetta, prese però una prima, importante decisione. Non se la sentiva di trascinare quel volto a Lui caro, in mezzo alla folla per la lapidazione. Di vedere il corpo sconciato e rotto dalle pietre. Inorridiva all’idea degli urli della gente, dello scempio bestiale e crudele.
Con uno sforzo quindi sul suo Io più ferino, decise di prendere Lui l’iniziativa di rompere il fidanzamento.
Dice il Vangelo” Giuseppe, che era giusto e non voleva esporla al pubblico ludibrio, decise di rimandarla in segreto.”
Di rimandarla, cioè di ripudiarla come fidanzata, perché – come il Vangelo dice prima – non vivevano ancora insieme.
Ma ecco che, mentre aveva appena maturato questa sofferta decisione, entra di colpo nella vita di questo giovane retto e giusto, ma con tutti gli appetiti e le pulsioni di un uomo normale, l’Infinito. Dice ancora il Vangelo “Un Angelo del Signore gli apparve in sogno per dirgli: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con Te, Maria, Tua sposa. Colui che in Lei è stato concepito, è opera dello Spirito Santo. Darà alla luce un figlio che Tu chiamerai Gesù. Egli infatti salverà il popolo dai suoi peccati”.
Non ci si sofferma mai sulle caratteristiche di queste esperienze divine. Non sono esperienze normali. Non hanno l’aspetto solido, ragionevole, concreto della vita di tutti i giorni. Chi ne ha fatto l’esperienza ha parlato piuttosto di una intuizione immediata e profonda, che investe tutto l’essere, di un senso di appagamento e di pace, ma anche di qualche cosa di profondamente diverso da un sentire e da un vedere normali.
E’ qualcosa che si capisce, sì, che è vero, ma che, al tempo stesso, non è riconducibile a nessun tipo di sensazione o di esperienza. Una volta passato, inoltre, l’individuo rimane con le sue pulsioni, le sue paure ed i suoi desideri. Ed anche con la fortissima tentazione di rifiutare quello sprazzo di Luce che gli è apparso e che, in genere, gli addita e lo vuole spingere verso una strada che da cui il proprio Io, il proprio Io fisico, a cui siamo tanto affezionati e con cui tanto bene ci identifichiamo, rifugge.
Probabilmente la maggior parte di noi ha avuto almeno una piccola esperienza. E la maggior parte di noi la ha respinta e poi dimenticata. Ha preferito seguire la vita normale, l’appagamento tranquillo del proprio Io, magari confortato dall’accettazione di una religiosità tradizionale, dal rispetto della comunità, dall’appagamento di desideri moderati e rispettabili.
Alcuni prendono invece la strada che Dio loro addita e che porta all’annientamento della propria personalità. Scelgono di sacrificare sé stessi, il proprio nome, la propria struttura fisica per seguire l’Eterno. Ed in premio, se riescono, ne divengono parte. Saranno Dei nel seno di Dio.
Però lo sforzo del libero arbitrio è notevole. Occorre credere nell’Incredibile.
Occorre capovolgere la propria vita per una fede nell’Assurdo.
Occorreva, nel caso di Giuseppe, credere a ciò che non avrebbe mai potuto raccontare né ai genitori, né ai fratelli, né men che meno agli amici: che la sua donna non aspettava banalmente un figlio da un legionario di passaggio, ma – diceva il sogno – era incinta dello Spirito Santo.
Per non parlare delle altre conseguenze. Il dover, ovviamente, rinunciare all’amore fisico di altre donne e della sua donna, pur vivendole accanto. Il rinunciare a Sé, alle proprie ambizioni, alle proprie affermazioni personali, a favore di quel piccolo, che, una volta accettato come dono della Spirito Santo, doveva avere la massima e totale precedenza nella Sua vita.
E le grane, i problemi, le angosce?
Checchè se ne dica, non è bello essere Santi: la distruzione del proprio involucro personale, è l’operazione più difficile che uno può fare, ottenibile solo con la rinuncia continua, implacabile a tutte quelle piccole occasioni di autoaffermazione che la vita ci offre.
Ed era poi proprio vero? Giuseppe credeva sinceramente nella possibilità di interventi divini nella vita di un uomo. Sante ed esperte persone gli avevano parlato di loro esperienze dirette. Però era possibile che tutto questo fosse successo a Lui? Non era forse l’influenza della febbre, di un incubo, del demonio?
Eppure quel sogno non sembrava un sogno. Ed il solo ricordarlo immergeva Giuseppe in una irreale calma, in una meravigliosa, splendente luce.
Giuseppe era comunque nella condizione ottimale per una scelta ben ponderata. Era un uomo fisicamente integro, nella pienezza della Sua forza fisica ed intellettuale. Ed accettò di vivere come il sogno gli comandava.
Lunga era la strada che aveva dinanzi a sé e costellata di amarezze e difficoltà. La più grande era quella di dover vincere l’animalaccio che era in lui e che faceva veramente fatica a vedersi nelle vesti di silenzioso e passivo tutore di un bambino.
Però a volte vi erano sprazzi di assoluta felicità e di quasi assurda irrefrenabile sublimazione. Il capire - non da fatti, ma capire ugualmente – l’innocenza e la straordinarietà della sua donna. E sentire di essere a Lei, nonostante la mancanza del sesso, legato da un vero, profondo e straordinario amore. E quei primi strani contatti con il Bambino. O Dio, un bambino del tutto normale. Però capace, di tanto in tanto, con qualche frase o con qualche fatto di proiettarlo di nuovo nell’Ineffabile.
E poi, più avanti, sentire il Suo affetto, sentire quella strana, incommensurabile potenza, che cresceva nel suo figlio adottivo. Ma che, strano a dirsi, sentiva crescere anche in sé, Giuseppe.
Ma era Giuseppe? O, man mano che passavano gli anni, non era il Dio dei suoi padri, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, che entrava sempre più in lui ?
Dirà, tanti anni più tardi, il mistico tedesco Angelo Silesio “ La goccia si fa mare, quando nel mare è giunta. E l’alma si fa Dio, quando è in Dio assunta.”
E Giuseppe, quando – ormai vecchio – lavorava lento nel Suo laboratorio, era pieno della Luce del suo sogno, di quella Luce sapiente e palpitante di amore. Finchè fu solo Luce.